Marriage story: la crisi di coppia e il conflitto come opportunità

Marriage story è un film diretto da Noah Baumbach, distribuito da Netflix nel 2019. Contrariamente a quanto si potrebbe dedurre dal titolo, la trama non narra di un matrimonio, ma della crisi di coppia e del principio di un divorzio, esaminando con dovizia di particolari il percorso psicologico e legale dei protagonisti. 

Charlie (Adam Driver) e Nicole (Scarlett Johansson) sono una coppia in crisi con un figlio di 7 anni, Harry. Apparentemente sembrano una famiglia felice e tranquilla: lui, affermato regista teatrale, è un padre presente e pieno di premure; lei è una persona semplice e “autentica”, ama suo figlio e gli dedica il suo tempo, pur senza rinunciare completamente alla recitazione e al teatro. Entrambi si descrivono reciprocamente come ambiziosi e competitivi e condividono la passione per lo spettacolo. Eppure questa apparente “normalità” cela dei non detti e dei malcontenti individuali che si ripercuotono inevitabilmente nei rapporti interpersonali.

Le tematiche del film sono state ampiamente trattate al cinema: la battaglia legale, i figli contesi nella separazione, l’alienazione parentale, le ambizioni deluse di lei che reclama i suoi spazi e le aspettative tradite di lui. Eppure non si tratta dell’ennesimo film sul divorzio, sulla scia di “Kramer vs Kramer”: lei non sparisce per metà del film e lui non è affatto un padre assente, assorbito dal lavoro e non deve riscoprire una relazione con suo figlio. 

Fino alla fine del film Baumbach sembra non lasciar trapelare le reali intenzioni di Nicole nei confronti del marito: non si comprende fino in fondo se lei sia una donna subdola, “agguerrita” più che determinata ad ottenere la custodia esclusiva del figlio ed estromettere Charlie dalla sua vita, oppure se sia una donna semplicemente confusa e in balia delle manie di grandezza del suo avvocato (interpretato da Laura Dern, premio Oscar come miglior attrice non protagonista)

MARRIAGE STORY, from left: Adam Driver, Azhy Robertson, Scarlett Johansson, 2019. © Netflix / courtesy Everett Collection

Il divorzio è narrato dal punto di vista dei genitori che in due momenti cruciali del film appaiono travestiti da mostri (durante la festa di Halloween). Il regista “traveste” Charlie prima da uomo invisibile e infine da fantasma, facendo un uso sapiente delle immagini e delle metafore. Tali dettagli rendono i spettatori coscienti di quanto sta accadendo nelle dinamiche familiari, mentre i diretti interessati, i protagonisti che vivono in prima persona gli eventi, sembrano completamente estranei ai sentimenti propri e altrui. Questa sorta di “analfabetismo emotivo” si ritrova spesso nelle relazioni che vanno in crisi e laddove sono presenti dei “non detti” che lasciano spazio a equivoci, incomprensioni e false aspettative. Una coppia troppo “amalgamata”, che vive quasi in simbiosi, non permette alle singole identità di emergere e continuare a crescere, mentre lo sviluppo dell’identità è un processo dinamico che inizia in adolescenza e va avanti per tutta la vita. 

Minuchin, uno dei primi terapeuti familiari, definisce varie tipologie di famiglie: la caratteristica principale della famiglia invischiata per esempio è la mancanza di confini tra i ruoli e le identità dei suoi membri; un forte senso di appartenenza prevale sul bisogno di individuazione e di indipendenza dei singoli; i movimenti di ciascun familiare tendono all’unisono; il basso livello di differenziazione tra i familiari lede il funzionamento globale e dei singoli. Dal canto suo, Whitaker, un altro pioniere della terapia familiare, nel suo libro “Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia”, descrive il matrimonio come l’unione di due famiglie (ovvero, delle famiglie d’origine dei due coniugi) piuttosto che come l’unione di due individui. Entrambe le famiglie cercheranno di far prevalere e di tramandare il proprio “modello” e i propri “mandati”. In alcuni casi si sceglierà il compromesso, in altri questo incontro-scontro può generare conflitti interminabili. Colpisce come in una scena del film, durante lo scontro verbale più violento tra i due coniugi, essi si accusano a vicenda paragonando l’altro ai propri genitori. Ciò rende l’idea di quanto talvolta i conflitti tra marito e moglie richiamino a loro volta altri conflitti più arcaici e reconditi.

Nicole sente di non appartenere più a se stessa perché le sue scelte sono dettate dai bisogni dell’altro e dalle esigenze contingenti; non si sente vista nella sua singolarità, ma soltanto in relazione all’altro; ogni tentativo di recuperare un proprio spazio vitale, in cui sentirsi non soltanto madre e moglie (cioè in relazione a qualcuno) ma semplicemente se stessa, dà vita a sentimenti di colpa verso il marito; ha perso contatto con le proprie emozioni e con il proprio modo di essere, perché si è sempre più adattata alle aspettative dell’altro, perdendo di vista quelle che erano le sue priorità. 

Le sensazioni che emergono inizialmente nei colloqui con lo psicoterapeuta di coppia (e gradualmente nel corso di tutto il film) hanno a che fare con il “non riconoscersi più”. Charlie appare a tratti smarrito e disorientato, come se non fosse più sicuro di conoscere la persona che ha avuto accanto per dieci anni. Nicole inizia a domandarsi se essere moglie e madre sia sufficiente e che fine abbiano fatto le sue ambizioni individuali. In altre parole lui non riconosce più lei, mentre lei non riconosce più se stessa, in quanto ha calibrato tutti i suoi interessi in funzione della sua vita familiare. Nicole alimenta la vitalità del marito, ma lei stessa non si sente più vitale:

Non mi ha mai chiesto cosa ne penso, quindi non so più cosa mi piace.

Il regista mette in primo piano la prospettiva dei protagonisti, in particolare nell’incipit del film, dove ciascun coniuge legge i pregi dell’altro. Nel corso di un intervento di mediazione familiare, lo psicoterapeuta domanda a ciascun coniuge di scrivere una lista di pregi del partner. Questa richiesta ha un obiettivo ben preciso: ricordare il perché Charlie e Nicole si erano scelti un tempo. Si tratta di un genere di approccio utile per valorizzare le risorse di entrambi per far fronte nel modo più sereno la separazione.

Con l’espressione “mediazione familiare” si fa riferimento ad un intervento professionale rivolto alle coppie che esprimono la volontà di separarsi. L’obiettivo è innanzitutto la salvaguardia della responsabilità genitoriale di ciascun coniuge in presenza di figli minori; inoltre, questo genere di intervento intende anche favorire un accordo tra i coniugi in fase di separazione, mitigando i conflitti.

In psicologia si parla anche di “mediazione del conflitto” come approccio teso alla risoluzione di un problema relazionale in numerosi contesti, da quelli scolastici, lavorativi, a quelli familiari. Il conflitto può essere letto come l’espressione di un disagio o difficoltà, perciò come tale non va represso, o ignorato, ma esplicitato, compreso ed elaborato, con la guida di un professionista esperto. Risolvere un conflitto non significa annullare le differenze (come abbiamo visto nelle famiglie invischiate) ma significa cogliere gli aspetti positivi e le risorse che ne possiamo ricavare. Il conflitto non va interpretato soltanto in accezione negativa, perché esso se ben utilizzato, può addirittura comportare dei miglioramenti nella relazione.

Il conflitto infatti ha dei vantaggi che non tutti riconoscono:

previene la stagnazione;

stimola interesse e curiosità;

innesca le capacità di problem solving;

è un banco di prova delle abilità individuali;

differenzia i gruppi;

stabilizza l’identità individuale.

Per tutte queste ragioni, è fondamentale affrontare il conflitto sul nascere piuttosto che “trascinarlo” in avanti ed esasperarlo, come è successo a Charlie e Nicole. Le crisi sono fasi fisiologiche di ogni famiglia e se ben elaborate possono rappresentare un’opportunità di crescita, basta coglierne il potenziale di apprendimento.

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